Per me era un musicista. Toccava i tasti creando spartiti di lettere che diventavano parole e poi storie.
Una frase dopo l’altra, un foglio dopo l’altro, costruiva una sinfonia che si alzava nella stanza e riempiva il silenzio dei pomeriggi afosi.
Giorno dopo giorno, l’ozio di quella estate era rotto dalla musica dei suoi tasti, dal suono del campanello alla fine di ogni riga, di ogni a capo, di ogni pausa per riprendere il pensiero e ributtarsi nella storia.
Era un direttore d’orchestra che con rapidi movimenti delle dita dettava il tempo a ogni suono. Foglio, carrello, rullo, leva del ritorno. E poi tasti, martelli, campanello. E il ronzio meccanico del riavvolgimento del nastro, quasi per dare il tempo alla fantasia di ricaricare nuove idee e imprimerle come note al posto giusto nell’armonia perfetta di una narrazione.
I fogli erano sottili, morbidi, con le lettere impresse profondamente. Li leggevo e nel mentre toccavo il retro del foglio con i polpastrelli: sentivo le parole, il loro susseguirsi di neri e bianchi, di pieni e vuoti.
L’estate bruciava fuori e dentro di me, perso in un’avventura che mi portava lontano senza farmi uscire da quella stanza in penombra.
Anni dopo, la Lettera 22 dello zio Sergio toccò a me. E successe di nuovo, molte estati dopo. Partii per un lungo viaggio senza uscire dalla mia stanza. Diventai musicista e scrissi spartiti di parole e musiche di frasi e armonie di pensieri che divennero viaggi nella vita degli altri.
Scritto da Antonio Galuzzi
Immagini originali realizzate dall’artista ©Sakka
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