La guardavo da lontano. Mi appariva irraggiungibile, non si sarebbe mai accorta di me, così bella e solare, sempre circondata da amiche e soprattutto da amici attaccaticci e invadenti. Lei sorrideva, non sembrava infastidita da tante attenzioni.
L’estate di Riccione era esplosa in mille colori, voci e bambini piangenti.
Eserciti di “coccoffresco-coccobbello” vagavano nella distesa infinita di ombrelloni e il mio sguardo, attraversato da centinaia di persone, ogni tanto la perdeva di vista. Lei rideva, ballava, giocava, faceva il bagno tra gli spruzzi della compagnia e poi correva sulla sabbia scura e dura del litorale disseminato di granchi e conchiglie. Io rimanevo nell’ombra, in tutti i sensi.
Con un paio di amici lavoravamo nelle gelaterie e nei bar per tirar su qualche lira e pagarci le vacanze. Nelle pause, si andava in spiaggia: bagno, birretta, sdraio. Fino al momento di ricominciare.
Una sera era molto tardi quando me ne andai dalla gelateria, sfinito. L’aria era calda e profumata, le stelle facevano a gara per riempire il cielo, l’odore del mare arrivava accompagnato dal suono delle onde.
E lei era lì, davanti a me, incredibilmente sola. La bicicletta per terra, lei seduta sul muretto con gli occhi lucidi.
«Sei caduta? Ti sei fatta male?» le chiesi.
«Si è rotta tutta la bici» piagnucolò.
«E tu?»
«Ho messo giù le mani e mi fa male il ginocchio. E anche le mani».
Bagnai il mio fazzoletto alla fontanella e glielo passai sui palmi e sul ginocchio per togliere lo sporco e un po’ di sangue che era uscito. Aveva gli occhi azzurri e pensai che non potesse essere altrimenti.
«Ti accompagno, mica posso lasciarti qui mezza morta!».
Lei rise, e la sua risata coprì per un attimo il rumore del mare.
Si appoggiò a me e il suo braccio corse intorno alle mie spalle. Il suo profumo morbido aveva coperto l’odore del mare e dei pini. Camminavamo piano, tenevo la bici con una mano e lei con l’altra. Parlavamo piano e non c’era più né mare né gelaterie intorno a noi.
Riccione dormiva ma ogni tanto, da qualche retrobottega, saliva forte il profumo dei bomboloni appena sfornati.
«Aspettami qui un attimo» le dissi «e non scappare via che adesso ti faccio resuscitare!». Lei rise ancora.
Tornai con un sacchettino che era già tutto unto e ancora scottava.
«Ecco, tieni: il primo bombolone di domani». In un attimo avevamo la bocca e le mani ricoperte di zucchero.
Poi arrivammo davanti al suo hotel. Mi diede un bacio zuccherino sulla guancia prima di allontanarsi zoppicando nel vialetto d’ingresso.
La guardai scomparire nell’oscurità della hall e vidi luci sempre più lontane accendersi al suo passaggio. Stavo per andarmene quando una vocina da un balcone mi chiamò.
«Domani, se vieni in spiaggia, non startene a guardarmi da lontano. I miei amici mica ti mangiano!».
Colpito e affondato. La notte accolse i miei pensieri irrequieti, piano piano Riccione cominciò a ripopolarsi e il chiarore divenne in poco tempo giorno pieno. Avevo camminato per ore con il suo profumo addosso e i suoi occhi dentro. Ora era finalmente arrivato domani.
L’avrei rivista? Ci saremmo parlati? Sarei diventato uno dei tanti che le ronzavano intorno? Sarebbe stato solo un bel ricordo estivo come quelli visti mille volte nei film sulle vacanze al mare? Tra poco l’avrei saputo.
Nel frattempo avrei fatto una colazione come si deve con cappuccino e bombolone: «Signor Giovanni, il solito».
Scritto da Antonio Galuzzi